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Monterosso: L’ Infinito nell’immediato, lo spazio nel tempo

“Monterosso”

La Resurrezione del tempo e la giustizia cristiana nell’uomo

breve racconto speculativo di Fabio Bergamo

 

Il presente scritto è dedicato alla memoria dei giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino; esso è stato premiato a Roma presso la sede del Campidoglio nell’Aula Giulio Cesare il 5 aprile 2023 nel concorso letterario “Premio Nazionale Albero Andronico”

In copertina, il ritratto in acquerello dei giudici Falcone e Borsellino è stato realizzato dall’artista italiano MICHELE BATTISTELLA che ha consentito al sito iosonobellezza.it di Fabio Bergamo la sua pubblicazione.

 

 

“L’infinito nell’immediato, lo spazio nel tempo” 

Col tramonto del sole le ombre delle case del paese si allungavano scurendo le viuzze che, come dolci insenature di scogliera, disegnavano la ragnatela conducente ai rifugi della sera. Poche deboli luci rompevano il buio come il pianto di un bimbo, in una notte calma e silente in una località, quella di cui vi parlo, che nello scenario naturale in cui era incastonata, offriva alla bellezza il suo più autentico senso estetico.

Il sindaco di Monterosso così chiamato perché a ridosso del paese vi era appunto un monte, chiamato Staglione, che nella stagione autunnale vedeva i suoi alberi dipingersi di un colore rosso acceso, facendo sì che la scoscesa parete assumesse nel complesso un colore unico, al punto da essere luogo caratteristico per i visitatori, come già per gli abitanti, era solito percorrere puntualmente, allo stesso orario, alle otto di mattina, e col medesimo percorso, da “via del tronco fiorito” a “via del fiume antico”, le sue caratteristiche stradine costituite anche di piccoli archi in pietra unenti le abitazioni, e da un selciato di pietre erose dal tempo e dall’uso, che lo portavano ogni giorno al Municipio per svolgere le funzioni di primo cittadino.

La vita del paese, composta poco più, di millecinquecento anime, riprendeva intorno a quell’ora: le prime botteghe cominciavano ad avviarsi nelle loro attività, i mastri attendevano con una certa impazienza i loro giovani apprendisti o fidati e ormai provetti lavoranti mentre preparavano i loro attrezzi, quasi per rito magico al fine di sacralizzare l’avviata nuova giornata lavorativa; le instancabili massaie mettevano in subbuglio le proprie case aprendo porte e finestre e cominciando ad esercitare il loro potere di padrone indiscusse delle loro stanze agitando tappeti e lenzuola, cuscini e quant’altro avesse a che fare con il ricambio dell’aria, dopo una notte stagnante e immobile al chiuso.

 

 

Essendo Monterosso un paesino di montagna a ridosso dell’appennino marchigiano, le attività che garantivano ad esso una discreta economia, potrei dire di tipo autarchico, erano quasi esclusivamente agricolo-artigianali, e ciò garantiva ai suoi abitanti la conservazione delle tradizioni più antiche che di generazione in generazione si erano trasmesse fino a noi, incredule testimoni di un tempo lontano e perlopiù bistrattato, non per esprimere biasimo, dalla gioventù moderna.

Un patrimonio di esperienze, di sacrifici e di amore infinito per la propria terra tornava a rivivere ogni giorno, allo spuntar del sole, come per miracolo, nella maniera in cui una persona quasi spacciata per una malattia o un male improvviso non facile a diagnosticarsi, tornasse a guardare con fiducia la vita, una volta superato il pericolo a cui era stata sfortunatamente soggetta: ecco, superata la notte, il giorno sembrava offrire le energie necessarie a ben sperare; la dolce primavera del cuore dunque riusciva a prevalere, in uno sforzo non certamente facile ma per questo più appassionante, sul freddo inverno della modernità.

Insomma, la saggezza dell’uomo vecchio si trasformava nella novità di ciò che veniva plasmato e realizzato appunto con perizia e discernimento di pensiero maturati nel corso dei secoli. La vecchiezza dei metodi antichi non era così un limite ma un valore da conservare strenuamente in quanto la modernità, priva appunto del tempo, che benigno l’antico recava nascostamente in esso, come la preziosa anima di un corpo, non era in grado di giudicare una realtà che non le appartenesse già semplicemente per principio, e proprio uno dei saggi del paese, un falegname dalla veneranda età, ben ottantanove anni di lucido intelletto, di cui non ricordo, io da giovane, il nome e col quale scambiai alcune parole quel bel primo giorno a Monterosso, era solito dire, ai turisti e a chi fosse lì di passaggio, a mo’ di esortazione, che la modernità del mondo d’oggi non poteva fare a meno dell’antico del passato per distinguersi da esso, perchè solo la diversità di entrambi avrebbe fatto in modo che reciprocamente tali realtà si valutassero per quelle che realmente sarebbero state per coloro che ne avessero appunto, in una maniera o in un’altra, usufruito almeno, a segno di speranza, consapevolmente.

 

 

La tradizione, alter ego del tempo, volendo io darle una semplice ma precisa definizione dunque, dopo aver appreso e rimuginando in quel momento le parole dell’amabile anziano, è la memoria calata nella realtà del presente, un presente sospinto dalla modernità verso il futuro ma che non può definirsi tale senza appunto un passato, un sostrato, una memoria che si suole definire anche “memoria storica” quando parliamo di eventi che hanno modificato e modificano in positivo e in meglio l’evoluzione della consapevolezza umana, la conoscenza profonda che l’uomo ha di sé di fronte alla sua condizione.

 

“Il Tempo è la memoria calata nella realtà del presente”

Fabio Bergamo

 

La modernità dunque non è futuro (tale concetto è, stando così le cose, praticamente aleatorio e tutt’altro che razionale) perché il futuro ha bisogno della memoria, ha bisogno del tempo, direi ancora in inglese di un “background spazio-temporale” e la modernità è priva di questa caratteristica perché in essa il tempo è morto, in quanto fugace, effimera appunto e come ho detto, aleatoria già come concetto.

Sì, il tempo è proprio morto, dissi tra me e me; esso è stato ucciso, ammazzato dall’arrivismo, dalla competizione portata al suo estremo, dalla fretta che regola le nostre attività quotidiane, nel lavoro come in tutte le altre azioni, e ciò si evince anche curiosamente dal nostro impreciso ed approssimato uso dell’orologio che non viene letto per l’orario corretto (puntuale è il caso di dire) che esso riporta, in quanto consultato in un determinato istante, mediante l’ora e le sue precise frazioni, ma considerato, inconsciamente, quasi come una classica clessidra a bulbi, misurante per confronto, il tempo rimanente, in funzione di quello già scaduto e dunque trascorso e ancor peggio, proprio a conferma di ciò che vado asserendo, per l’idea che si ha del tempo, nel mondo d’oggi, dalla periodicità, ripetitività di certi fatti incresciosi o peggio ancora tragici che appunto in un tempo da definirsi tale, perché segnato da una sua scansione non solo cronologica, ma storica, non dovrebbero più ripetersi; infatti la domanda “che ora è?” dovrebbe vedere capovolto il rapporto soggetto-predicato e trasformarsi in “che è ora?” ossia “che tempo è ora?” nella consapevolezza della realtà attuale, dell’essere del tempo perché le ore che scandiscono il tempo cronologico sono le stesse ogni giorno, ma la realtà del tempo, la sua essenza, cambia di continuo, in virtù delle informazioni che sono la base, la piattaforma della comunicazione portante allo sviluppo di una cultura (e di una società) che sappiamo il più delle volte, governata politicamente, tramite i mass media, quando non capace di apportare un cambiamento, in meglio, della realtà (status quo o anche stagnazione).

Là per là, strafacendo e allungando i miei passi nel saliscendi delle stradine del paese ricche di scalini di tanto in tanto numerati a ricordare quelli già superati e decorate nelle pareti esterne delle case da maioliche dipinte a rappresentare artisticamente l’ameno  paesaggio del luogo, mi chiedo provocatoriamente anche: ma allora a cosa serve essere in orario a scuola o sul luogo di lavoro o ancora servirsi dell’aereo per giungere prima e più lontano, se poi il tempo della memoria, la storia con le sue vicende, non ha la sua meritata ed efficace considerazione all’interno della modernità del presente?

 

 

Qual è dunque il nostro destino, quale la nostra meta finale se non sappiamo da dove proveniamo e come allora imbatterci in questo oscuro, incerto cammino? Dove stiamo andando se siamo in una realtà senza ritorno, senza memoria? Quando organizziamo un viaggio, una trasferta, o una vacanza forse, non stabiliamo a priori anche le modalità del ritorno e allora perché la memoria, il passato è stato annullato dalla modernità?

Queste domande mi accompagnarono durante il breve soggiorno a Monterosso, che durò appena due giorni, e ripromisi a me stesso di tornarci successivamente, appunto per meditare su questi profondi interrogativi che il luogo coi suoi unici personaggi, incastonati in un paesaggio pittoresco abbastanza, da invitare un bravo artista, oltre ad ammirare, a eternare su tela col suo talento espressivo, questi soggetti fatti di posti e di persone, mi aveva prospettato, e per trovare per essi delle risposte utili a saziare il mio spirito indagatore indirizzato sul sentiero della ricerca della verità come profonda comprensione dell’essere.

Ogni cosa, osservata con lo sguardo della riflessione consapevole, che intorno a me si presentava aveva un qualcosa di magicamente imperituro; sì, ciò che io vedevo aveva superato il tempo, lo aveva vinto dando per questo ad esso il valore suo proprio come nel caso di un olivo secolare – scelto a simbolo di Monterosso proprio per volontà del sindaco e presente in un angolo della piazza del paese e precisamente in uno spazio verde antistante la piccola scuola elementare intitolata a Don Ferrante Aporti grande pedagogista italiano della prima metà del XIX secolo – che superando il forte freddo dell’inverno e il gran caldo dell’estate resisteva ormai da diverse centinaia d’anni, alle intemperie della natura perché esso stesso era ed è la natura.

Osservando e contemplando quel maestoso albero di ulivo compresi dunque che il tempo nella sua scansione, nel suo inesorabile fluire confermava la sua, solo all’apparenza paradossale, immanente eternità.

Ogni istante nell’universo del tempo aveva un significato che andava oltre se stesso, superando il suo limite concettuale: l’attimo, la scansione del momento, era il microcosmo, la rappresentazione in miniatura, in scala ridotta, o per meglio dire il concentrato di tutto il tempo preso nella sua assolutezza, nella sua interezza, dunque l’immediato nella sua eternità che si identificava appunto in una sola parola che è “memoria”.

Conclusi che il momento fosse l’anima del tempo, il suo atomo, la sua infinitesima parte; un momento inserito però in esso e non fuori, perché ciò avrebbe portato ad un non senso della sua realtà che andavo esaminando, anche in considerazione – in forma di indizio, come nelle ricerche di un esperto ispettore di polizia – del nome della strada “fiume antico” che appunto riportava alla mia immaginazione, a mo’ di ossimoro, l’acqua nel suo inesorabile scorrimento su un fiume perenne, immutabile nella sua realtà naturale.

 

 

La stessa impressione facevano al mio pensiero – al pari dell’olivo pluricentenario soprannominato dagli abitanti di Monterosso “Matusalemme”, e ormai considerato monumento naturale del paese e che molti di essi abbracciavano affettuosamente come fosse un loro caro tornato da un lungo e periglioso viaggio – le abitazioni delle famiglie, semplici nella loro struttura ma caratteristiche a vedersi: in massima parte costituite da un pianterreno ed un primo piano, erano dotate di un caminetto nella sala principale, la quale fungeva da luogo di prima accoglienza degli ospiti, le camere da letto erano al piano superiore; nel rispetto della tradizione esse erano realizzate tutte in pietra con pareti molto larghe così da essere fresche d’estate e calde d’inverno oltre a garantire una buona stabilità della struttura nel suo complesso.

Il pavimento al pianterreno poi, era costituito da ciottoli in pietra di fiume, variopinti nei colori e diversi nelle dimensioni e costituivano un vero e proprio mosaico secondo la loro disposizione a forma di fiore, di foglia o altro elemento che rappresentasse la natura. Quello delle camere era invece, in legno, perché caldo e leggero e sottratto all’umidità del terreno e simile al parquet di oggi.

Il loro interno era uno scrigno di ricordi: ogni famiglia amava appendere alle pareti piccoli attrezzi da lavoro in base alle attività svolte dai propri avi: ciò che veramente mi sorprese fu questo, ossia la volontà di non dimenticare, la volontà appunto di rendere perpetuo ciò che meritava di essere valutato tale. Commuovendomi, mi convinsi ad un certo punto, che un attaccamento così forte alle origini era una caratteristica propria del Dna di questa popolazione tanto semplice e tanto generosa nell’accoglienza dei forestieri come pure nel modo di vivere nella reciprocità dei rapporti familiari o di sentita amicizia tra gli stessi paesani.

A parte le comuni feste di paese a Monterosso, infatti, vi era una particolare tradizione che per la prima domenica dell’inizio di ogni nuova stagione voleva che tutte le famiglie riunite in piazza, dopo la messa, si incontrassero per scambiarsi doni sia di pietanze cucinate al momento e ortaggi appena raccolti sia di oggetti realizzati dai capaci e provetti artigiani come attrezzi da lavoro o di uso domestico per le massaie, al fine di sopperire a qualche mancanza o insufficienza nei confronti di chi in quel momento era privo di tali cose; ma essendo una tradizione che faceva protagonisti anche i bambini nel simile scambio di doni, rispettivamente tra maschietti e femminucce, aveva più un valore simbolico in quanto mirante a tenere unita la comunità, in previsione di possibili avversità dovute anche a calamità naturali o accidenti climatici che avessero potuto malauguratamente colpire anche una singola famiglia, una sola casa, in cui l’impegno, l’intervento di tutti sarebbe stato fondamentale per il loro superamento.

Questa ricorrenza infatti, come avevo saputo da una signora che mi aveva ospitato nella sua casa, per vedere come l’ambiente delle abitazioni era organizzato, era stata istituita dal Comune per rispondere all’appello del medico di Monterosso che in occasione del terremoto, verificatosi nel 1959, aveva salvato con le sue mani, dalle macerie dell’unica sfortunata casa crollata, appunto a causa del sisma, un bimbo di sei anni, mentre a perdere la vita furono i genitori e la sorellina di dieci.

 

 

Quella esperienza, mi disse la signora, segnò emotivamente gli abitanti e turbò molto il medico pediatra Faustini, unico dottore all’epoca, del paesino, il quale giurò a se stesso che bisognava fare in modo, e con qualsiasi mezzo, che la brava gente di Monterosso, da quella sciagura, imparasse ad essere pronta a qualsiasi evenienza onde evitare che una sorte simile, toccata già ad una delle famiglie, si ripetesse arrecando ancora altro dolore tra la benevola popolazione; in pericolo dunque, per il bravo dottore al quale i piccoli, quando amoroso dopo averli visitati, li prendeva in braccio, amavano toccare incuriositi i baffi candidi come il bianco camice che indossava, non era solo la vita delle persone ma la stessa armonia che regnava nella piccola località di montagna nota nel mondo, per il suo monte che in autunno si colorava di un rosso vermiglio.

Unico monumento artistico del paese, a parte una targa a ricordo della famiglia tragicamente scomparsa a causa del sisma del ’59, era la scultura a mezzo busto dell’irredentista Cesare Battisti che sacrificò la sua giovane vita per la causa patriottica italiana nei confronti dell’impero austro-ungarico.

Il monumento era al centro del giardino – quest’ultimo collocato frontalmente al palazzo comunale e di forma rettangolare – infatti, dalle finestre dell’edificio era possibile scorgerlo tra gli alberi presenti nell’ampio spazio verde, dotato anche di vialetti arricchiti ai loro bordi di fiori variegati nelle colorazioni e nelle qualità, di panchine in legno all’ombra delle piante e di un avvallamento, un fossato di forma circolare scavato artificialmente nel terreno in cui confluiva l’acqua proveniente dalla sorgente del famoso monte del paese che offriva ai pesci ed alle rane la possibilità di sussistere e proliferare in esso: il tutto però raggiungeva il massimo, l’acme della bellezza nel periodo primaverile, in occasione del quale mi trovai in quei giorni, quando gli uccelli col loro differente ed intrecciato cinguettare danno all’ambiente la voce, il canto che ad esso manca e che occorre, in forma di musica sinfonica, a completare il quadro bucolico e nel contempo romantico del luogo.

In tale fantastico scenario dunque all’uomo non rimane che una sola cosa, che è poi sua specifica prerogativa, ossia la contemplazione: il bearsi liberamente di ciò che la natura gli ha donato, senza limiti di tempo, in quanto riproduzione spontanea in perpetuo di se stessa.

E proprio qui risiede l’affascinante mistero di essa: la sua eternità nel momento, nell’attimo della sua spontanea intuizione o apprensione; e da questa felice consapevolezza andavo sempre più avvicinandomi così al segreto della vita celato proprio, anche stavolta in una solo apparente paradossalità, nella sua natura.

Il giorno seguente, ultimo del mio breve soggiorno, ebbi l’occasione di incontrare proprio il primo cittadino, che avevo avuto modo di vedere ritratto nella bacheca del fotografo del paese, in una foto scattata durante la processione che ogni anno si tiene il 4 di dicembre in onore della Patrona di Monterosso che è Santa Barbara, e naturalmente con lui scambiai piacevolmente due parole nel parco, prima che si dirigesse nella sede istituzionale per svolgere il suo compito amministrativo delegatogli mediante elezioni, due anni prima.

 

 

Ci fermammo a discutere, seduti ad una panchina per quasi un’ora e il luogo ameno, fatto di natura vivace e rigogliosa ispirava appunto ad esprimere pensieri e concetti utili a confermare ciò che già il filosofo greco Anassimandro aveva sostenuto oltre duemilacinquecento anni orsono con tanta lucida intelligenza, e cioè che la giustizia umana è, e non può che essere conforme all’ordine naturale; e proprio alle nostre spalle una tavoletta in legno, a forma di insegna rettangolare inchiodata ad altezza d’occhio ad un paletto, sempre ligneo, infisso al margine del sentiero, riportava scolpita una sua arguta, profonda elucubrazione giunta a noi dal passato, come in un viaggio nel tempo ma presente e viva oggi, ora, adesso per noi, quasi a motivo di severa esortazione ribadita come un’eco veniente da lontano proprio come la natura, che nel suo perpetuo ripetersi si rinnova, e che giustamente da indovinato scenario incorniciava in modo perfettamente appropriato il nostro interessante colloquio: «Principio degli esseri è l’infinito… da dove infatti gli esseri hanno origine, lì hanno anche la distruzione secondo necessità: poiché essi pagano l’uno all’altro la pena e l’espiazione dell’ingiustizia secondo l’ordine del tempo»  (Anassimandro, in Simplicio, De physica, 24, 13).

Il sindaco, confidandomi di non essere un filosofo, avendo più una cultura tecnica che umanistica, mi chiese di chiarirgli, svelargli il recondito o meglio ancora segreto contenuto della frase di Anassimandro e fui felice di fornirgli delle spiegazioni utilizzando, per facilitare la comprensione del significato sapienziale di essa, degli esempi e sapendo anche, che su quella celebre frase molti grandi filosofi avevano espresso delle interpretazioni non tutte naturalmente complete nella loro chiarificazione, fui costretto ad avviare il mio ragionamento su di essa partendo dalla mia seguente frase avente valore di massima, caratterizzata da un dualismo filosofico: “L’Infinito nell’immediato, lo spazio nel tempo”.

Insomma volli rappresentare mediante una proporzione di tipo matematico il rapporto esclusivo e necessario tra tali categorie per spiegare il mistero della sapienza della vita e dunque della sua giustizia nella più tangibile realtà, quest’ultima legata alla sua intima essenza.

Scaturendo dall’Apeiron (l’infinito) secondo Anassimandro, la separazione dei contrari da cui l’anelito all’armonia degli opposti nella natura fisica ed umana, affermai che per ben capire cosa volesse intendere il filosofo greco, bisognasse pensare agli opposti, calati in un tempo, in una realtà che li portasse prima ad attrarsi fino a toccarsi – ricordandomi in quel momento il paradosso che si celava nel nome della via del tronco fiorito  – quasi a collidere nel senso di apparire uguali, simili ai più, ossia ai meno sapienti, nella confusione della loro interpretazione e a respingersi, in un dopo contemporaneo al prima, e quindi essere distinti proprio dalla categoria del tempo, quest’ultimo però correlato alla visione dello spazio.

 

 

Ciò che separava l’armonia degli opposti ai fini della giustizia era dunque la chiara distinzione di essi sulla base di una diversa concezione del rapporto di interazione dello spazio col tempo da cui l’infinito nell’immediato; infatti non avrebbe alcun senso il tempo cronologico se prima non avessimo la corretta comprensione del tempo storico per il quale l’immediato appartiene alla memoria, dunque al ricordo e non al presente inteso, dalla massa e dal massificante, erroneamente come modernità.

Il tempo dunque cosa è invero? È la capacità dell’uomo di incidere sulla memoria, esso è così esistenza e non sussistenza della vita umana superante la condizione limitata sul piano fisico-materiale e temporale-economica di essa.

Sulla base del rapporto proporzionale delle due categorie esistenziali per il quale “l’infinito sta all’immediato come lo spazio al tempo” è chiaro che possiamo rendere particolarmente illuminante il rapporto di connessione-unione e distinzione-separazione ai fini della giustizia, tra le categorie degli opposti come per esempio “bene-male” dove nel caso del loro rapporto inquadrato nelle categorie esistenziali, il bene si fa gratuitamente, quindi risulta essere immediato perché privo di secondi fini e senza un destinatario definito, mentre il male no, perché messo in atto da chi usa la violenza per raggiungere uno scopo ben preciso o colpire un soggetto determinato.

Nel caso del dualismo “bello-brutto”, il bello che rappresenta la bellezza nell’infinito dell’immediato si trasforma in brutto nello spazio del tempo in quanto il destinatario di essa è sempre alla ricerca di qualcosa di nuovo, utile a catturare il suo sentimento. Il bello calato nello spazio del tempo, ossia nel tempo cronologico, annoia perché ingannevole mentre la bellezza dell’infinito nell’immediato esalta e meraviglia; e su questo dualismo si confrontano e scontrano ad esempio, le categorie della moda fine a se stessa e della moda come arte in quanto tale, come nel caso del fashion-design per l’abbigliamento o del car-design altrimenti detto automotive-design per le automobili, le motociclette e i mezzi di trasporto in genere, ecc.

Nel rapporto tra “vita e morte”, la vita che nel tempo cronologico sembra dunque morte perchè considerata solo una esperienza limitata e finita temporalmente, si trasforma in pura esistenza nel tempo storico dove l’individuo, pur essendo limitato dalla sua breve vita, sacrifica se stesso per un ideale, un credo che va oltre il sé personale come nel caso di Gesù di Nazareth.

Per la “virtù e il vizio” sappiamo che la virtù (facente capo alla libertà, alla spontaneità e purezza di spirito) come buona abitudine ad agire, e quando si agisce lo si fa nell’immediato, secondo il canone del buon dovere, proviene dall’educazione e la formazione trasmesse fin da bambini; il vizio (facente capo alla dipendenza) viene dalla sua mancanza a causa della quale una debolezza, una insensatezza, un misfatto ripetuti, reiterati nel tempo divengono appunto vizio, immaginiamo tutte le forme di dipendenza, ecc.;

Un altro esempio è il rapporto tra “idea-idiozia”: per l’idea sappiamo che essa in quanto intuizione proviene da una memoria ricca di informazioni caratterizzante la persona studiosa, preparata culturalmente ed invece per l’idiozia abbiamo l’imbecillagine, l’ottusità di mente di una persona che non ha nulla in termini di conoscenze e che si suole definire stolta, e appunto tonta perché tardiva di mente in quanto per comprendere le cose, anche le più semplici o meglio le più immediate, impiega più tempo, appunto lo spazio nel tempo;

Nel dualismo “forza-violenza” si capisce che la forza è immediata mentre la violenza è perpetrata nel tempo: immaginiamo per la forza le sommosse popolari e le rivoluzioni, l’intervento delle forze dell’ordine nelle emergenze di interesse pubblico e non di potere; ed invece per la categoria della violenza il crimine organizzato o la politica quando non gode della economicità, della tempestività e risolutività dei suoi interventi trasformandosi in potere conservato e potenziato nel tempo a detrimento dello stato di diritto, della legalità e dunque della vera democrazia, a quel punto infatti non c’è differenza tra sistema politico e delinquenza o crimine organizzato;

Nel rapporto “amore-odio” dove l’amore dell’infinito nell’immediato si trasforma in repulsione/disprezzo/odio nello spazio del tempo causando del male: immaginiamo, in questo caso, l’egoismo in tutti i suoi deleteri aspetti o la gelosia esasperata ed ossessiva nel sentimento di coppia.

E a questi ultimi va ricollegato il dualismo “perdono-condanna” in quanto essi sono forme di giustizia giusta se rimanenti nell’infinito dell’immediato (la condanna  realizzata dalla entità statuale mediante l’ergastolo o la pena di morte) messe in opera nei confronti del colpevole autore del reato; conseguentemente, se così non fosse, saremmo di fronte ad un “perdono” che non porterebbe al cambiamento, ossia all’estinzione definitiva di un determinato atto criminale, sarebbe invece una “condanna” a danno di uno o più innocenti nel corso del tempo e non del colpevole, e ciò starebbe appunto ad evidenziare la sua realtà come inserita nella categoria dello spazio nel tempo e non in quella dell’infinito nell’immediato, e come tale non sarebbe più legittimo e razionale perché non assolverebbe alla sua funzione anzi finirebbe per  giustificare altra violenza; ciò altresì, spiega in modo inconfutabile, perché ogni crimine contro l’umanità (che è scandalo cioè impedimento, intralcio per la reale giustizia come insegna lo stesso Vangelo di Gesù Cristo) anche non mortale ma lesivo della dignità umana – e si pensi anche ad un altro diritto, ossia quello della “dignità ambientale” visto l’inscindibile rapporto uomo-natura – in quanto “assassinio della speranza”, vada condannato con una pena esemplare (ergastolo con isolamento totale portante in breve tempo alla morte del reo, e se a ciò si aggiunge che Dio nella infinita sua bontà è solo, allora tale sistema di giustizia è vero a fortiori) in quanto la giustizia immediata (ossia istantanea e/o definitiva), nel suo esercizio, è opera dei buoni (uomini giusti), la condanna, nel tempo, (dunque cronologica e provvisoria) invece è opera dei cattivi (uomini ingiusti).

 

Giovanni Falcone e Paolo Borsellino hanno dato, al tempo, col loro esempio di vita, il suo legittimo significato. Memoria e Spirito sono indissolubilmente connessi fra loro perché è lo spirito che consente all’essere umano di evolversi.

 

Così la Giustizia divina di cui parlo, quella vera, autentica appunto perché umana, non ha nulla a che vedere con quella “pseudo-umana” e burocraticamente regolata dai governi soltanto perché un sistema politico-economico deve essere tenuto in piedi, ed a conferma della mia tesi è l’esatto capovolgimento, mediante il rovesciamento delle categorie del dualismo esistenziale, di essa come nel caso degli uomini del calibro dei giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, che, non protetti dalle istituzioni, vengono eliminati in maniera immediata, mentre i criminali, esecutori materiali del reato, sono puniti con i diversi tipi di carcerazione, nel tempo, previsti dal codice penale funzionale al sistema e non alla giustizia vera e propria che è fonte di felicità e salute, e che come ho ampiamente dimostrato nella mia argomentazione, è l’essenza della Vera Vita che trova ulteriore prova, a sua giusta conferma, nel Vangelo, per tutti, credenti e non, e al di là di ogni pseudo-schieramento politico che si finge paladino dei diritti umani e civili, quando invece la Giustizia su cui io sto dicendo la verità, non è di sinistra, come non è di centro e di destra.

Senza vera Giustizia, il Mondo è destinato a rimanere così com’è, all’interno di un falso ed illusorio progresso civile, in realtà solo e meramente tecnico, e dominato dai burocrati del potere stagnante, in quanto menomato nella sua Libertà perché basata su un criterio distorto e perverso di Essa.

 

 

Alla fine del mio ragionamento rivolgendomi al primo cittadino concludo: “Vede le ho spiegato come nessuno poteva fare meglio, cosa si cela dietro la famosa frase del filosofo Anassimandro che ci pone di fronte ad una realtà imprescindibile per l’essere umano, cioè quella per cui senza il tempo storico, senza la memoria, l’esistenza dell’uomo è spacciata; a nulla serve il denaro, il lavoro, lo studio, la politica, il progresso tecnologico se appunto viene meno la consapevolezza del tempo da cui scaturisce ciò che mantiene in vita l’essere umano cioè la Giustizia”.

E lui, dopo un momento, una pausa di riflessione mi dice: “Sì non potevo mai immaginare che dietro quelle parole si nascondesse un così profondo significato formativo; nella mia vita ho letto molti libri ma nessuno, in poche parole, ha potuto riassumere veramente il significato più vero dell’esistenza umana che lei mi ha chiarito; non le nascondo infatti che ho cercato per anni la verità nei libri elaborati da illustri intellettuali, grandi poeti e famosi romanzieri, nonché da noti politici a questo punto solo da considerarsi sedicenti tali, ma è bastata una frase a spiegare tutto sulla vita e sulla visione che i giovani, come i miei figli, devono avere di essa per affrancarsi una volta per tutte, da un mondo che mortifica e uccide la loro esistenza, e di questo le sono infinitamente grato; adesso, mio malgrado, devo lasciarla, per assolvere il mio ufficio, ma spero di incontrarla nuovamente, mi auguro che si tratterrà qui, ancora qualche giorno perché so di avere incontrato, oggi, una persona amica”.

Ed io: “In verità oggi vado via, il mio viaggio prosegue e come penso abbia compreso dalle mie parole, il mio agire è personale perchè indirizzato appunto verso il ristabilimento della giustizia nel mondo proprio come nel concetto filosofico, da me elaborato, dell’Unisione dove l’uno è nel tutto, ma le prometto che presto tornerò, Monterosso è un luogo adatto alla contemplazione, al rapporto simbiotico dell’uomo con la natura e dobbiamo ringraziare proprio essa, che pur non avendo un’anima intellettuale, perchè in dote esclusiva all’uomo, ha permesso a noi proprio nella sua semplicità di comprendere ciò che il filosofo Anassimandro aveva afferrato di se stesso, in quanto essere vivente dalla natura molto più complessa, appunto osservandola con gli occhi dell’anima e non banalmente con il solo semplice senso fisico della vista, e nel cortese commiato le faccio un dono in veste di formula concettuale da me coscienziosamente elaborata proprio sul valore, la comprensione del significato del tempo per l’essere umano, e sulla quale potrà esprimere le sue legittime considerazioni in virtù anche del suo ruolo politico tenuto a Monterosso: “il futuro è l’avvenire dell’immediato è il presente trasformato nel domani dell’oggi”..

 

Gesù crocifisso

Santuario Santi Cosma e Damiano in Eboli (SA)

 

 

 

 

Gesù nel Getsemani

 

Fabio Bergamo

 

” NO WISDOM, NO PARTY “

 

Alcuni apprezzamenti:

 

“Gentile Sig. BERGAMO ci complimentiamo per il suo lavoro”

Dr. FEDERICO MONTAGNA – Notaio in Pavia – 23 febbraio 2023

 

“Egregio Sig. Fabio Bergamo, mi compiaccio che ci siano ancora persone come Lei, che hanno a cuore temi sociali. Le auguro di riuscire a portare a termine i Suoi meritevoli progetti; pertanto le auguro ogni successo”. Avv. Roberto Zappia (MILANO)

 

Bello scritto, un saggio filosofico in gran parte condivisibile. Bravo Fabio. (Da Silvia)

 

Grazie. E’ meraviglioso come scrive. (Katia)

 

Grande. Bravo Fabio (Da Antonio Simonetti)

 

Ottimo lavoro. (Prof. Alfonso Vocca)

 

“Spero che abbiano molto successo i suoi scritti e che finalmente molti cittadini capiscano davvero cosa è la mafia”. (F.G.)

 

Caro Fabio, chi riesce ad appassionare i lettori è un grande scrittore ed io che nei pochi ritagli di tempo leggo qualcosa, posso dire che sei veramente bravo.  (Francesco Carillo)

 

Tra i sostenitori compaiono

https://www.holyart.it/it

 

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